MEDIO ORIENTE: IN CERCA DI UNA TREGUA

Joe Biden annuncia che una tregua per il Ramadan è vicina, ma Israele e Hamas lo gelano: “Prematuro”.

“Gli israeliani hanno concordato che non parteciperanno ad attività militari durante il Ramadan” e ancora, “Una possibile tregua ci darà il tempo di far uscire tutti gli ostaggi” perché “gli ostaggi devono essere liberati”. In un’intervista al Late Night con Seth Meyer sulla NBC, Joe Biden prova ad imprimere un’accelerata e, facendo intendere che i tempi sono maturi, annuncia che una tregua in Medio Oriente è ormai in vista. Nella stessa trasmissione il presidente Usa ha affermato: “Spero che lunedì prossimo [4 marzo] avremo un cessate il fuoco. Il mio consigliere per la Sicurezza nazionale mi dice che siamo vicini, ma non ancora pronti”. L’estratto, riportato dall’agenzia Associated Press, non è stato ripreso dalla Casa Bianca, da cui non è arrivata nessuna conferma o chiarimento, ma sembra dimostrare che le trattative sono a buon punto. Da giorni i paesi mediatori, Qatar, Egitto e Stati Uniti, stanno cercando di chiudere un accordo a Parigi: la trattativa verterebbe intorno a sei settimane di cessate il fuoco e il rilascio di tutti gli ostaggi ancora in mano ad Hamas. Le speranze, rispetto ai tentativi finora falliti di raggiungere una tregua, sarebbero motivate dal fatto che entrambe le parti hanno moderato le loro posizioni: Hamas avrebbe accettato un numero di detenuti minore in cambio del rilascio degli ostaggi, mentre Israele avrebbe ammorbidito la sua posizione su una sospensione dei combattimenti. Almeno stando alle informazioni filtrate in via non ufficiale a cui, però, non corrispondono segnali altrettanto incoraggianti sul terreno: nelle ultime 48 ore Israele ha effettuato diversi raid aerei nella valle della Bekaa, uccidendo almeno due membri di Hezbollah in quello che è stato registrato come il più violento attacco in territorio libanese dall’inizio delle ostilità. E se da parte di Washington si registrano pressioni crescenti, la riluttanza delle parti in causa gela ancora una volta le attese. “Non si capisce l’ottimismo di Biden per una tregua”, affermano fonti israeliane, mentre per Hamas le parole del presidente Usa “sembrano premature”.

Un piano impraticabile?

In un mare di incertezze c’è una sola cosa su cui tutti concordano: molto dipenderà dal primo ministro Benjamin Netanyahu, che finora non ha dimostrato grande volontà di trovare un accordo e che anzi non ha perso occasione per mettere in difficoltà l’alleato americano. Nei giorni scorsi, e dopo numerose pressioni internazionali, il premier israeliano ha sottoposto al suo gabinetto di guerra un piano per il ‘giorno dopo’ la fine del conflitto. Il documento, di cui la stampa ha riportato i dettagli,  prevede la totale demilitarizzazione della Striscia di Gaza, per cui è prevista una ‘libertà limitata’ all’interno di un territorio più piccolo di quello attuale, con il controllo israeliano del confine con l’Egitto per impedire la ricomparsa di “elementi terroristici”. L’Unrwa, l’agenzia Onu per i i rifugiati palestinesi, verrebbe smantellata e sostituita con un altro ente da definire. E, soprattutto, Israele manterrebbe il “controllo sulla sicurezza” anche di tutta la Cisgiordania e di Gerusalemme Est, cioè dei territori che secondo gli accordi di pace dei decenni passati sarebbero di pertinenza dei palestinesi. Il piano, contrario alle aspettative di molti paesi europei e arabi, nonché ai desiderata degli Stati Uniti, è stato categoricamente respinto dall’Autorità nazionale palestinese (Anp) che ha ribadito come esso miri a perpetuare “uno status quo insostenibile” e ad impedire la creazione di “un futuro Stato palestinese indipendente”.

Le colonie ostacolo principale?

“Il piano di Netanyahu per il giorno dopo è che non esiste alcun piano per il giorno dopo”, sintetizza su Ha’aretz Noa Landau. “Sotto Netanyahu, israeliani e palestinesi sono destinati, come nel film ‘Ricomincio da capo’, a svegliarsi ieri mattina. Vuole quello che ha sempre desiderato: gestire il conflitto senza mai risolverlo”. Un programma, il suo, che sembra andare esattamente nella direzione auspicata dalla sua coalizione di governo di estrema destra: durante il fine settimana il governo israeliano ha annunciato l’intenzione di espandere gli insediamenti in Cisgiordania, anche dopo le critiche da parte europea e nonostante il fatto che l’amministrazione Biden abbia detto di ritenerli “inconciliabili con il diritto internazionale”. L’espansione degli insediamenti, che frammentano il territorio della Cisgiordania con strade e altre infrastrutture, è considerata dagli esperti il principale ostacolo alla nascita di qualsiasi stato palestinese. Ed è uno dei motivi per cui molti osservatori si dicono scettici riguardo alle rinnovate discussioni sulla soluzione dei due Stati, che – a meno dello smantellamento di numerose colonie e insediamenti – sarebbe ormai incompatibile con la realtà sul terreno.

Anp: qualcosa è cambiato?

La necessità di creare le condizioni per un ‘domani’ dopo la fine del conflitto è alla base della decisione del primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese  Mohammed Shtayyeh di dimettersi dal suo incarico. L’annuncio arriva in vista dell’incontro, giovedì a Mosca, tra le varie fazioni palestinesi, a cui parteciperà anche Hamas e soprattutto in seguito a mesi di intense discussioni tra Ramallah, Washington e gli stati arabi, su come rafforzare la legittimità dell’Autorità Palestinese, gravemente minata da decenni di immobilismo e corruzione in modo che possa essere parte di una soluzione postbellica a Gaza. Difficile dire se l’uscita di scena di Shtayyeh, in carica dal 2019, basterà o se sia – come alcuni sospettano – solo un cambiamento cosmetico che consentirà al presidente Mahmoud Abbas di mantenere la sua presa sul potere.Negli ultimi dieci anni, i sondaggi d’opinione hanno mostrato che tra il 70 e il 90% dei palestinesi vorrebbero le sue di dimissioni. Ma lui, che ha 88 anni ed è presidente dal 2005, non sembra avere alcuna intenzione di rassegnarsi né di cedere il passo ad una generazione di politici più giovani e meno compromessi. Rivelando che come in Israele, anche tra i palestinesi un futuro di pace è impossibile senza un cambio di leadership.

Tratto da ISPI

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