Europa: quanto costa difenderla?

Il vecchio continente si è scoperto vulnerabile con la guerra in Ucraina a pochi chilometri dall’UE, e ora deve fare letteralmente i conti con il disimpegno americano dalla difesa europea, ventilato nel megafono elettorale di Trump e ormai parte del dibattito elettorale USA che guardano all’Indo-Pacifico. Ma una difesa europea comune non si improvvisa e, se da un lato l’apporto degli Stati Uniti rimane indispensabile per la deterrenza, dall’altro i Paesi membri dell’UE devono preoccuparsi di incrementare, e anche allocare meglio, la spesa militare, ritagliando al contempo un ruolo per Bruxelles di “direttore d’orchestra” della ricerca e dell’industria per la sicurezza. Una doppia sfida per la nuova Commissione.

“Freedom isn’t free” era un vecchio slogan divenuto popolare negli Stati Uniti durante la guerra di Corea, con i suoi altissimi costi umani e materiali sostenuti in difesa dei valori comuni a tutto l’Occidente. Ma oggi tende ad assumere un nuovo significato, a fronte dei due anni di conflitto in Ucraina – alle porte della NATO e dell’Unione Europea – e della prospettiva di una persistente minaccia russa accoppiata ad un possibile disimpegno americano dall’Europa. L’imperativo di sostenere la coraggiosa resistenza di Kyiv, in termini sia militari che finanziari, va ora di pari passo con la necessità, per gli europei, di prepararsi a rilevare una porzione più grande del “fardello” della propria difesa e di rafforzare le proprie capacità industriali nel settore. La leadership politica e l’appoggio economico e militare di Washington appaiono infatti in discussione – già ora, con il blocco della legislazione in Congresso – e ancor più in futuro. Se lo scenario di un’amministrazione Trump 2.0 fa tremare le vene e i polsi a molti, anche con un Biden 2.0 l’attenzione dei vertici americani potrebbe spostarsi altrove, dal Medio Oriente all’Indo-Pacifico.

NATO: più denari europei con il disimpegno USA

Dal punto di vista militare e strategico, l’Alleanza Atlantica continua a rappresentare il solo credibile “deterrente di ultima istanza” contro l’aggressività russa, grazie soprattutto alla presenza degli Stati Uniti (80.000 soldati e numerose basi sul teatro europeo) e al suo ruolo nella NATO (anche in termini di armi nucleari tattiche, intelligence e logistica). In questo senso, la sola vera opzione per gli alleati è rafforzarne il “pilastro” europeo, investendo più risorse, più mezzi e più forze nei compiti di “deterrenza e difesa” che le sono propri fin dalle origini, 75 anni fa. La seconda invasione russa dell’Ucraina ha marcato una svolta importante in questo senso – anche in termini di dispiegamento di unità europee a protezione degli alleati più esposti – e i dati appena resi noti dall’Alleanza lo confermano: entro la fine di quest’anno, 18 paesi NATO su 31 (erano appena cinque pochi anni fa) rispetteranno il target del 2% del PIL in spese per la difesa fissato nel 2014, all’indomani della prima invasione: lo farà per la prima volta anche la Germania (grazie soprattutto al “fondo speciale” di 100 miliardi di euro su 4 anni creato subito dopo l’attacco russo a Kyiv), e il 2% sarà pure la media generale fra tutti gli alleati (fra i più importanti, solo Italia e Canada ne restano al di sotto).

I Paesi europei della NATO (incluse quindi Gran Bretagna, Turchia e Norvegia) sono passati da una spesa aggregata di 230 miliardi di euro nel 2014 ad un totale di 380 per il 2024, mentre per i soli Paesi UE – secondo i dati dell’European Defence Agency (EDA) – la crescita rispetto a 10 anni fa è del 40%. Anche in termini di ripartizione del bilancio amministrativo comune dell’Alleanza in quanto organizzazione – un punto spesso sollevato polemicamente da Donald Trump – negli ultimi tre anni il contributo nordamericano (Stati Uniti e Canada) è sceso dal 28,5 al 23 %, mentre quello dei membri UE è salito dal 55 al 60%, su un totale annuo di circa 2.5 miliardi di euro (di cui l’80% per le strutture militari). La sfida, per il futuro, sarà non soltanto consolidare questi incrementi ma rafforzarli: i piani di difesa strategica approvati dalla NATO al vertice di Vilnius dell’anno scorso prevedono, del resto, un aumento dell’impegno militare degli europei che richiederebbe, secondo alcune stime, un target di spesa sostenuta nel tempo attorno al 3% del PIL.

La difesa UE non si improvvisa

L’Unione Europea in quanto tale non è e non sarebbe in grado, da sola, di difendersi da un’aggressione russa – tanto più dopo Brexit. Non solo, ma la “difesa comune” non fa neppure parte del suo mandato “costituzionale”, per così dire: l’articolo 42 del trattato di Lisbona menziona soltanto le missioni (civili e militari) di mantenimento della pace e stabilizzazione post-conflitto “al suo esterno” – tali sono state le 30 e più operazioni condotte direttamente dall’UE nei vent’anni scorsi – ma non la protezione militare del suo territorio e dei suoi cittadini, anche se una “difesa comune” può essere decisa dai suoi leader (all’unanimità). Perfino la tanto controversa “autonomia strategica” su cui ci si è divisi negli ultimi anni si riferirebbe – pur nella sua vaghezza concettuale e operativa – solo a queste attività, e lo stesso “esercito europeo” evocato da alcuni non è mai stato proposto come un’alternativa alla NATO: il trattato istitutivo della Comunità Europea  di Difesa, poi affondata nel 1954 dall’Assemblea nazionale francese, prevedeva infatti che fosse sottoposto al comandante supremo delle forze alleate (e americane) in Europa.

La difesa militare del continente, in altre parole, non si improvvisa; l’Unione in quanto tale non ha proprie basi o “divisioni” (per parafrasare una celebre battuta di Stalin sul Vaticano), e non ha neppure un suo bilancio militare (vietato dai trattati): anche se i suoi membri spendono per la difesa, collettivamente, tanto quanto Mosca, il loro output strategico aggregato è di gran lunga inferiore alla somma delle sue parti – senza contare che le circa 500 testate nucleari della force de frappe di Parigi (peraltro, mai messa esplicitamente a disposizione di alleati o partner) potrebbero, comunque, ben poco contro le oltre 5.000 dell’arsenale atomico di Putin.

Quale ruolo per l’UE nella difesa europea?

ove l’Unione può invece fare una differenza è sul fronte industriale, sostenendo e incentivando produzione, investimenti e ricerca nel settore della difesa. Gli shock degli ultimi anni (Brexit, Trump, Ucraina) hanno già spinto l’UE a spezzare vecchi tabù, prima finanziando la ricerca dual-use, poi creando strumenti ad hoc come lo European Defence Fund, che supporta gli investimenti congiunti in R&D militare ed ha attualmente una dotazione di circa 10 miliardi di euro per il periodo 2021-27 (a cui vanno aggiunti gli 800 milioni allocati l’anno scorso per la produzione e l’acquisizione congiunta di munizioni nel 2024-25). A inizio marzo la Commissione dovrebbe presentare una vera e propria European Defence Industrial Strategy per il prossimo ciclo istituzionale (2024-29) e di bilancio (2028-2034) che potrebbe comprendere un unico programma da 100 miliardi di euro, e la cui messa in opera potrebbe essere conferita ad un nuovo Commissario ad hocAl di fuori del bilancio comunitario, inoltre, i 27 Paesi membri hanno creato la European Peace Facility, preposta a finanziare diversi tipi di spesa militare (per 12 miliardi finora, sempre per il 2021-27), compreso un parziale rimborso ai Paesi membri che forniscono mezzi a Kyiv (oltre 5 miliardi): un pacchetto addizionale di 20 miliardi per la sola Ucraina dovrebbe essere adottato sempre il mese prossimo.

Tuttavia, non si tratta soltanto di mobilitare più fondi a livello europeo. La presidente della Commissione uscente (ora anche candidata alla propria successione) Ursula von der Leyen – a suo tempo ministra della difesa a Berlino – lo ha spiegato la settimana scorsa in un’intervista al Financial Times: “we have to spend more, to spend better, and to spend European”. La vera sfida, insomma, è come far sì che le risorse destinate al settore – a livello nazionale, comunitario e intergovernativo – generino più della somma delle loro parti, utilizzando meglio il mercato interno e le supply chains ed economie di scala che ne possono risultare. La chiave è insomma rappresentata dalla capacità e volontà degli europei di spendere, investire ed acquisire congiuntamente e non separatamente, sulla falsariga di quanto fatto negli anni scorsi con i vaccini e il gas. A nuovi programmi congiunti – meglio se aperti agli altri membri europei della NATO, a cominciare da Londra – potrebbero così anche essere offerti nuovi incentivi, come riduzioni dell’IVA, facilitazioni per i trasferimenti di tecnologia e crediti mirati da parte della Banca Europea degli Investimenti – ma non, presumibilmente, esenzioni dal calcolo dei deficit pubblici nazionali o emissioni di “euro-bond” per la difesa.

Sfida nella sfida: rafforzare l’industria della difesa

Fino ad oggi, infatti, la cooperazione industriale transnazionale europea nel settore degli armamenti è stata molto limitata, in parte per la naturale competizione fra i gruppi maggiori (soprattutto se “campioni” nazionali), in parte per le prerogative degli stati in materia di appalti (un articolo risalente al trattato di Roma del 1957 limita la concorrenza in nome della “sicurezza nazionale”), e in parte per la preferenza di alcuni Paesi per l’acquisto di equipaggiamento off-the-shelf (per lo più di fabbricazione americana). I pochi programmi congiunti – come l’Eurofighter e l’A400M – non sono stati lanciati su iniziativa o con fondi UE, e quelli che lo sono (come il cosiddetto Euro-drone, ancora in fase di sviluppo) tendono a conoscere ritardi di produzione e lievitazioni di costi. Trovare un equilibrio efficiente ed efficace fra gli interessi di nazioni e imprese grandi, medie e piccole, fra competenze comunitarie e nazionali, e fra ricostituzione di capacità convenzionali a lungo trascurate e sviluppo di nuove capacità strategiche è, insomma, una sfida nella sfida. Ma non c’è dubbio che garantire ordini crescenti, congiunti e prevedibili per un certo numero di anni offrirebbe a tutti gli attori gli incentivi necessari per consolidare e rafforzare le capacità industriali e tecnologiche indispensabili per la difesa dell’Europa – rendendola forse anche a prova di Trump.

Tratto da ISPI

Lascia il primo commento

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*