USA: tre mission impossible?

Ucraina, Medio Oriente e Asia: Biden deve fare i conti non solo con le risorse finanziarie per la Difesa, ma anche con i “capitali” politico e ideale.

Una volta insediata, l’amministrazione Biden si pose una serie di obiettivi chiari di politica estera, da promuoversi attraverso il rilancio della leadership americana e il ritorno a un energico multilateralismo su alcune questioni nodali, a partire dalla grande sfida del cambiamento climatico. Dettagliati poi nella National Security Strategy dell’ottobre 2022, questi obiettivi possono essere ricondotti in grande sintesi a cinque pilastri fondamentali: a) rafforzare alleanze e interdipendenze regionali, a partire da quelle transatlantica e transpacifica; b) promuovere accordi internazionali e riforme interne finalizzate a ridurre la dipendenza degli USA da supply chains globali sulle quali hanno pochi controlli e che offrono alla Cina strumenti di condizionalità forti e ineludibili; c) consolidare mezzi e pratiche della governance globale sugli ambiti che lo richiedono, in particolare le questioni ambientali; d) adottare politiche finalizzate al contenimento dell’influenza della Cina, ormai sempre più rappresentata (e percepita da larga parte dell’opinione pubblica statunitense) come un competitor se non addirittura un nemico; e) riattivare negli USA un sostegno ampio a una politica estera attiva e interventista, giustificata attraverso una retorica pregna di riferimenti al ruolo unico e speciale dell’indispensabile potenza statunitense, e alla democrazia come comune denominatore primario che legherebbe gli USA ad alcuni alleati naturali. 

L’aggressione russa all’Ucraina e quella di Hamas a Israele hanno modificato, anche in modo radicale, questo schema, senza però stravolgerlo completamente. A partire dal febbraio 2022 gli Stati Uniti hanno promosso un’azione finalizzata a costruire un ampio fronte di sostegno a Kiev centrato primariamente sulla ritrovata centralità della NATO e del blocco euro-americano. In parallelo, hanno consolidato sia la propria presenza militare nell’Asia-Pacifico sia la rete di alleanze bilaterali e mini-laterali nella regione, con una funzione precipuamente anti-cinese. Un attivismo, questo, che rispondeva (e risponde) a diversi obiettivi: ripristinare la credibilità del deterrente statunitense, all’apparenza minata dai fiaschi militari del XXI secolo e dall’umiliante uscita dell’Afghanistan; ricompattare il blocco euro-statunitense attorno alla rinnovata leadership di Washington; fermare l’aggressivo revisionismo russo; validare la propria retorica, presentando il conflitto in Ucraina come una guerra della e per la democrazia

Il riverbero del conflitto ucraino in Medio Oriente

Il conflitto in Ucraina ha però acuito e accelerato dinamiche di frammentazione dell’ordine globale in atto da tempo. E ha rimescolato le carte su diversi tavoli, a partire da quello mediorientale, dove gli USA auspicavano di proseguire un parziale disimpegno agevolato dalla loro crescente auto-sufficienza energetica, dalla ripresa del dialogo con l’Iran e dall’apparente stabilità della questione israelo-palestinese. Già prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, si erano attivate dinamiche che sembravano poter alterare gli equilibri regionali e danneggiare gli USA. In particolare, vanno menzionati sia il consolidamento dell’asse tra Iran e Russia, cementato dall’aiuto militare del primo, sia l’attivismo diplomatico senza precedenti della Cina nella regione, che ha avuto il suo picco nella mediazione di Pechino tra Iran e Arabia Saudita e la normalizzazione delle relazioni tra i due grandi nemici. L’amministrazione Biden ha cercato di rilanciare il ruolo e l’influenza degli USA in Medio Oriente, abbandonando le iniziali preclusioni nei confronti dell’Arabia Saudita (Stato che doveva diventare un “paria” del sistema internazionale, aveva dichiarato il futuro Presidente durante la campagna elettorale del 2020) e rimettendo i rapporti con Israele al centro del gioco diplomatico. L’obiettivo era di estendere a Riad la rete di accordi (“di Abramo”) che sotto la supervisione statunitense Israele aveva stipulato negli anni precedenti con Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan. All’Arabia Saudita gli USA avrebbero garantito come in passato protezione, aiuti e sofisticata tecnologia militare. In cambio, Riad avrebbe operato per calmierare (e stabilizzare) il prezzo del petrolio, preservato il suo schieramento a fianco degli USA e contribuito alla sicurezza d’Israele, contribuendo a una stabilità regionale che non dipendeva più da una (onerosa) presenza americana.

L’ultimo tassello di questo puzzle riguardava proprio Israele. Perché gli USA auspicavano, grazie a questo accordo, di poter avere una maggiore leva di pressione nei confronti di un partner a dir poco problematico, quale era il nuovo governo radicalmente conservatore di Benjamin Netanyahu, insediatosi a fine 2022. Nei mesi successivi, sia Biden sia il suo Segretario di Stato Antony Blinken, si sono espressi in termini assai critici nei confronti della linea adottata dal governo israeliano rispetto agli insediamenti in Cisgiordania, e hanno rilanciato la via dei due Stati come unica soluzione possibile della questione palestinese. 

Senza cadere nella tentazione di individuare nessi causali rigidi o coerenti grand designs strategici che sono propri della fantasia (o dei giochi di ruolo) più che delle relazioni internazionali, appare evidente come la guerra in Ucraina si sia riverberata in Medio Oriente, concorrendo a questo mutamento di linea di Washington.

L’azione di Hamas ha ovviamente fatto saltare una strategia la cui attuazione non sarebbe comunque stata semplice o scontata. E ha messo gli USA in una posizione estremamente complessa, che non spiegherebbe altrimenti l’impegno finora profuso dall’amministrazione Biden per cercare di contenere gli effetti di questa drammatica crisi, simboleggiato anche dal viaggio per molti aspetti straordinario di Biden in Israele del 18 ottobre. Viaggio che non sembra avere sortito gli effetti sperati, con un Presidente fin troppo schiacciato nel sostegno a Israele e privato del summit che nelle intenzioni avrebbe dovuto bilanciarlo, quello con i leader di Giordania, Egitto e Autorità Nazionale Palestinese cancellato dopo la tragedia del missile caduto sull’ospedale a Gaza. 

Quattro fronti, tre capitali

In un contesto fluido e frammentato, gli USA sono chiamati a confrontarsi con problemi (e su fronti) diversi e strettamente interdipendenti: la guerra in Ucraina; l’assertività cinese, nell’Asia-Pacifico e non solo; questa nuova, drammatica crisi mediorientale, e il rischio molto alto di una sua escalation regionale. Hanno le risorse e le capacità per farlo? È impossibile saperlo e lo scopriremo solo nei mesi e negli anni a venire. Sappiamo però che abbisognano di tre capitali per fronteggiare queste sfide e promuovere l’ambiziosa azione globale che esse comportano. E che rispetto a ognuno di essi si confronta con contraddizioni molto acute. 

Il primo capitale è quello materiale: gli aiuti e i costosi impegni, in primis militari, necessari ad agire con efficacia su tutti questi dossier. In risposta al Covid e a sostegno delle sue ambiziosissime riforme, Biden ha di molto incrementato la spesa pubblica, inclusa quella militare (che è tornata a crescere, raggiungendo il 3,5% del Pil nel 2022). Capacità impareggiabili, quelle statunitensi, anche perché dispiegabili attraverso una rete unica di basi militari. E capacità però non illimitate ovvero condizionate da un’opinione pubblica interna oggi molto refrattaria a farne uso o ad accettarne i costi.

Questo ci porta al secondo capitale, quello politico. Un’opinione pubblica ancora scottata dai fallimenti post-11 settembre e un mondo politico polarizzato, dove forti sono le pressioni per ridurre oneri e impegni internazionali, rendono molto difficile la promozione di politiche estere costose e interventiste. È questa forse la variabile che, intrecciandosi con la disfunzionalità del sistema politico americano, rende più complesso l’esercizio dell’egemonia da parte degli USA e l’accettazione dei suoi costi. Biden sembra volervi dar risposta con l’uso di una retorica molto binaria che celebra la “potenza indispensabile” degli USA e adotta toni rooseveltiani, presentandoli come “l’arsenale della democrazia”, o da prima Guerra fredda nel rappresentare l’ordine globale come definito dalla partizione (e dalla competizione) tra democrazie e autocrazie, libertà e oppressione. 

Toni che semplificano, banalizzano e talora finanche mistificano. E che incidono sul terzo capitale di cui gli USA abbisognano: quello diplomatico e, in una certa misura, “ideale”. Le crisi dell’ultimo biennio sembrano avere consolidato la rete di alleanze storiche di Washington, ripristinandone il significato e l’attualità (è il caso della NATO), ed estendendole anche a nuovi membri (la NATO, nuovamente, ma anche il network USA-centrico dell’Asia -Pacifico). Hanno acuito però una partizione con tanto mondo terzo, anche democratico, incline a mettere sotto i riflettori e a denunciare i tanti doppi standard, ambiguità e ipocrisie di una visione delle relazioni internazionali binaria e in teoria universale – che celebra la democrazia, l’impegno condiviso alla governance globale o il primato del diritto internazionale – che sovente viene applicata in modo selettivo e assai parziale. 

tratto da ISPI

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