Economia globale: escalation proibita

Nonostante le numerose differenze con il 1973, i costi di una guerra estesa sarebbero troppo elevati per un’economia globale e regionale già fragile..

Pandemia, guerra in Ucraina, frammentazione geoeconomica tra sanzioni e contro-sanzioni commerciali, impennata record prima dell’inflazione e poi dei tassi d’interesse a livello globale, debiti pubblici elevati ed eventi climatici sempre più frequenti e distruttivi. A questa lunga lista di shock si è aggiunto lo scorso 7 ottobre il riaccendersi del conflitto israelo-palestineseProprio la settimana prima il Consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti Jake Sullivan aveva malauguratamente affermato che il Medio Oriente si trovava in una fase relativamente tranquilla della sua storia recente. Ora l’attacco di Hamas, il più sanguinoso nella storia dello Stato d’Israele, e la reazione feroce di Tel Aviv nella Striscia di Gaza, i cui piani e risvolti sono ancora nebulosi, rischiano di creare scossoni tutt’altro che tranquilli. Nonostante i timori di una potenziale escalation regionale, fino a oggi il conflitto si è limitato allo scontro tra Israele e Hamas. Non è un caso che la reazione dei mercati globali sia stata al momento modesta, quotazione del greggio compresa.

Economia globale: incognita stagflattiva

Il nuovo shock geopolitico in una regione del mondo chiave dal punto di vista energetico non poteva avvenire in un momento peggiore a livello economico. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) nel World Economic Outlook di ottobre (che per forza di cose non ha incorporato gli eventi di questo mese) prevede, oltre a un’inflazione in graduale discesa, una crescita del Pil globale al 3% nel 2023 e al 2,9% nel 2024. Cifre notevoli considerando la lunga lista di shock sopramenzionati, ma comunque ben più basse rispetto alla media annua di crescita del 3,8% nel ventennio 2000-2019. La nuova crisi in Medio Oriente non può essere paragonata alla guerra dello Yom Kippur di 50 anni fa né per contesto energetico né per contesto geopolitico, ma come negli anni ‘70 si inserisce in un quadro economico globale già fragile e con pochissimi punti fissi

Questo ulteriore shock rischia di peggiorare ulteriormente il quadro con una nuova ondata stagflattiva. La rilevanza del suo impatto è altamente incerta perché dipenderà dall’evoluzione del teatro di guerra e dal ruolo dell’Iranottavo produttore mondiale di petrolio con una quota del 4% (Tabella 1). I timori dell’Occidente sull’atteggiamento della Repubblica islamica sono amplificati dal fatto che le sue forniture di greggio hanno rappresentato in questi mesi una benvenuta e ”silenziosa” forza accomodante in un mercato “strangolato” dai tagli di Russia e Arabia Saudita e dalla centralità dello Stretto di Hormuz per il commercio delle commodities energetiche.

La fluidità della situazione corrente invita a considerare tutte le variabili potenzialmente in gioco. Pierre-Olivier Gourinchas, capoeconomista del FMI, ha affermato nella conferenza stampa di presentazione dell’Outlook che una lievitazione duratura dei prezzi del petrolio del 10% ridurrebbe il Pil mondiale dello 0,15%, pari a oltre 150 miliardi di dollari, e aumenterebbe l’inflazione dello 0,4% nel 2024. Per Bloomberg Economicslo scenario a oggi improbabile di un’escalation regionale del conflitto farebbe molto peggio a livello globale: impennata del petrolio fino a un massimo di 150 dollari al barile (+77% dalla quotazione pre-guerra), crescita del Pil sotto il 2% (negli ultimi quattro decenni è successo solo nel 1982, nel 2009 e nel 2020), ovvero 1.000 miliardi di output in meno di quanto stimato in precedenza, e inflazione media ancora a ridosso del 7%.

Israele e Gaza: due realtà in balia della guerra 

Se il conflitto resterà limitato per durata ed estensione, i costi per Israele non dovrebbero essere catastrofici ma neanche trascurabili. L’economia ha storicamente resistito ai precedenti recenti episodi di violenza tra le due parti. In secondo luogo, Israele ha fatto il suo ingresso nel 2023 con lo slancio portato da un +6,5% di crescita, un’inflazione ormai al picco e uno storico avanzo pubblico (prima volta dal 1987) pari allo 0,6% del Pil l’anno scorso. 

Tuttavia, come hanno sottolineato tutte le maggiori agenzie di rating, la cautela resta d’obbligo, soprattutto se ci sarà un’invasione di terra. Due sono i fattori da sottolineare. In primis, oltre 360mila persone (4% della popolazione e 8% della forza lavoro) sono state richiamate in uniforme ancora in attesa delle prossime mosse di Tel Aviv. Il fatto che la maggior parte dei riservisti sia relativamente giovane toglie capitale umano importante dall’industria hi-tech nazionale, che rappresenta quasi un quinto del Pil e metà dell’export israeliani e che ha registrato la più rapida crescita in termini di output e forza lavoro a livello settoriale nell’ultimo decennioSecondo Start-Up Nation, un ente non profit israeliano, un decimo dei lavoratori tech sarebbero stati chiamati al servizio. Oltre all’impatto che subiranno inevitabilmente turismo, costruzioni, servizi al dettaglio e potenzialmente la promettente industria gasiera, il drenaggio di risorse dall’hi-tech è uno dei colpi da sottovalutare di meno. Com’era preventivabile, lunedì la Banca d’Israele, alla sua prima riunione dal giorno dell’attacco di Hamas, ha peggiorato le sue stime macroeconomiche: assumendo che la guerra resti contenuta nel sud del Paese e pesi soprattutto nella parte finale dell’anno, si prevedono meno crescita e più debito nel 2023 e nel 2024 di quanto stimato in precedenza (Tabella 2).

Tabella 2 – Israele: le prime stime dall’inizio della guerra

*Confronto tra la media dell’indice dei prezzi al consumo nell’ultimo trimestre dell’anno e quella dell’ultimo trimestre dell’anno precedente. 
Fonte: Banca d’Israele, 23 ottobre 2023 
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Il secondo fattore riguarda il deterioramento della fiducia degli investitori, già minata nel corso di quest’anno dalla controversa riforma della giustizia fortemente voluta dal governo di Netanyahu e osteggiata da gran parte della popolazione. Un primo impatto delle turbolenze politiche prima e di quelle militari poi ha investito lo shekel, che ha toccato in questi giorni i minimi da 11 anni contro il dollaro. La Banca d’Israele ha così deciso di dare maggior peso al rischio di cambio non tagliando per ora i tassi d’interesse e fornendo liquidità ai mercati. Per esempio, è stato annunciato un programma di vendita di riserve in valuta estera fino a un massimo di 30 miliardi di dollari. Considerando che la banca centrale ne ha in bilancio circa 200 miliardipari a più di un anno di importazioni e al 125% del debito estero lordo, il cuscinetto da mettere in campo per attutire ulteriori ribassi dello shekel è ancora considerevole. 

Se per Israele l’impatto del conflitto si gioca sui decimali, nei Territori palestinesi la partita in gioco è ben più esistenziale della previsione di recessione nel 2023. In particolare, l’Operazione “Spade di Ferro” di Israele aggrava una crisi umanitaria senza fine per i 2,2 milioni di abitanti della Striscia di Gaza, che Tel Aviv (con la complicità del Cairo) ha praticamente chiuso al mondo dopo la presa del potere da parte di Hamas nel 2007. Il futuro di oltre un milione di civili fatti evacuare dalla zona settentrionale densamente popolata è ancora tutto da scrivere. Dopo giorni di stallo, solo il 18 ottobre il premier Netanyahu ha dato il via libera all’ingresso nell’enclave delle prime – anche se modeste – quantità di cibo, acqua e medicinali attraverso il Varco di Rafah, dove la popolazione di Gaza è bloccata.

Nemmeno poche cifre riuscirebbero a dare un’idea della crisi in cui versano i Territori Palestinesi, la cui popolazione ha un’età mediana di soli 19,6 anniRispetto alla Cisgiordania è soprattutto la Striscia di Gaza a soffrire in termini economici e sociali (Tabella 3). Senza contare tutti gli allarmi delle Nazioni Unite sulla perenne necessità di supporto umanitario nella zona. Sono numeri destinati inevitabilmente a peggiorare a prescindere dallo scenario di guerra.

Tabella 3 – Territori Palestinesi: la grande divergenza

Fonte: Istituto centrale di statistica palestinese 
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Libano ed Egitto: un’altra crisi non serve

Occorre poi guardare a Nord di Israele e a Sud della Striscia di Gaza. I diretti interessati potrebbero essere il Libano sul fronte militare e, come accennato prima, l’Egitto sul fronte umanitario. Entrambi i Paesi non possono permettersi di aggravare le loro rispettive crisi economiche.

Viste le continue schermaglie lungo il contestato confine che da tre settimane quasi quotidianamente colpiscono le zone di frontiera israelo-libanesi, sussiste il rischio che Hezbollah finisca per trascinare il Libano in un’altra guerra con Israele dopo le invasioni di Tel Aviv del 1978, del 1982 e del 2006. La forza paramilitare, colonna portante del cosiddetto “Asse della Resistenza” iraniano nonché uno degli attori non-statali meglio equipaggiati al mondo, ha infatti legami profondi sia con Hamas che con l’altro gruppo armato presente a Gaza, Jihad Islamico Palestinese. A riprova della crescente recrudescenza del fronte Nord, è possibile notare come solo da inizio ottobre gli sfollati nel Paese dei cedri risultino già quasi 20mila.

La pressione interna affinché Hezbollah non intervenga nei combattimenti deriva dal timore che una campagna su larga scala con Israele porti al completo collasso di quel poco che resta delle istituzioni e dell’economia del Libano. La paralisi politica è evidente: il Paese è senza presidente da un anno, non è retto da un governo nelle sue piene funzioni e dallo scorso luglio la banca centrale, istituzione che sarebbe fondamentale in una fase di instabilità finanziaria, ha un governatore ad interimCiò si mischia con un’economia al collasso tra contrazione del Pil, iperinflazione, soprattutto alimentare, debito alle stelle, prosciugamento delle riserve valutarie e stallo sulle riforme (Tabella 4). È una situazione ancora più catastrofica se si pensa che il Paese vive una situazione cronica di deficit delle partite correnti e la lira libanese nel mercato parallelo ha perso il 98% del suo valore contro il dollaro tra il 2019 e il 2022. Il pericolo di una nuova guerra aggraverebbe questi problemi e colpirebbe le infrastrutture e le pochissime fonti di reddito presenti e forse future: il turismo e il potenziale sfruttamento di giacimenti offshore di idrocarburi nel cosiddetto Blocco 9.

Tabella 4 – Libano: economia al collasso

*Riserve di oro escluse.
Fonte: Fondo Monetario Internazionale, Rapporto ex Articolo IV 2023 sul Libano
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Dal canto suo, per la sua posizione geografica l’Egitto emerge come uno degli attori “inaggirabili” dalla crisi in corso. Non sorprende dunque che i suoi titoli di Stato denominati in dollari siano stati tra i più colpiti tra quelli della regione nei giorni successivi all’attacco di Hamas insieme a quelli giordani. C’è prima di tutto la questione umanitaria. L’Egitto ha espresso fermamente la sua contrarietà all’ingresso di profughi da Gaza attraverso il Varco di Rafah. Il rifiuto di al-Sisi è dovuto al fatto che tale ondata rappresenterebbe una sconfitta politica per un Paese per cui la questione palestinese, anche a livello di opinione pubblica, ha storicamente rivestito una grande importanza. In più, lo sfollamento della Striscia si concentrerebbe nella regione del Sinai, sempre a rischio di attacchi terroristici e priva fra l’altro delle infrastrutture necessarie per poter gestire tali contingenze umanitarie. Avere un altro confine instabile dopo quelli libico e sudanese, a maggior ragione alla vigilia delle elezioni presidenziali, preoccupa a livello di sicurezza. In ogni caso è probabile che l’Egitto cercherà di svolgere un ruolo costruttivo in questa vicenda nella speranza che il suo contributo venga riconosciuto dai partner occidentali e regionali e potenzialmente ricompensato economicamente, come successe nel 1991 ai tempi della Prima Guerra del Golfo.

Infatti, per il gigante da oltre 100 milioni di abitanti la regionalizzazione della guerra darebbe un altro duro colpo a un’economia in enorme difficoltà da mesi. Anche se non ai livelli del Libano, visto che il Pil continua a espandersi, sono evidenti i grandi squilibri all’interno dell’economia: nonostante il rialzo dei tassi d’interesse, l’inflazione viaggia ancora a ridosso del 40%, le riserve valutarie sono carenti di fronte alle passività commerciali e finanziarie e un terzo della popolazione si trova sotto la soglia nazionale di povertà. Le agenzie di rating stanno intensificando il pressing, anche perché il rapporto tra il governo e il Fondo Monetario Internazionale resta problematico. L’Egitto ha chiesto all’istituto di aumentare da 3 a 5 miliardi di dollari l’ammontare del prestito dilazionato su cui si era raggiunto un accordo lo scorso anno. L’impasse è dovuta alla lentezza delle riforme strutturali e monetarie attuate dal Cairo. Un vero e proprio dilemma dal momento che sia l’FMI sia i fondamentali creditori del Golfo chiedono una maggiore flessibilità del tasso di cambio, ovvero una nuova svalutazione dopo le tre attuate da inizio 2022 (Grafico 1). Ma con il carovita che corre a livelli record sarebbe un’azione dai costi non indifferenti.

Grafico 1 – L’insostenibilità del tasso di cambio dollaro/sterlina egiziana da inizio 2022

Fonte: Investing.com 
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Infine, occorre ricordare che l’Egitto importa gas naturale da Israele. Dopo l’attacco del 7 ottobre Israele ha interrotto le attività di produzione del giacimento di Tamar e il flusso dal gasdotto EMG che collega Ashkelon in Israele e Al-Arish in Egitto. Tali rifornimenti sono fondamentali sia per compensare le défaillances del proprio settore energetico che per garantire le esportazioni di gas naturale liquefatto. Il riorientamento attuato dei flussi attraverso la Giordania potrebbe non bastare.

Altri Paesi vicini potrebbero avere ripercussioni dello stesso stampo di Libano ed Egitto, anche se di grandezza ben minore. Nel triangolo Israele, Hezbollah e Iran, si inserisce inevitabilmente anche la Siria, che ha supportato l’attacco di Hamas ed è vittima per l’ennesima volta dei raid da parte di Tel Aviv, tra cui i recenti avvenuti a ottobre ai danni degli aeroporti di Damasco e Aleppo. A sua volta, la Giordania osserva con preoccupazione la guerra a Gaza visto il probabile impatto sul settore turistico, che contribuisce per oltre il 10% del Pil nazionale, e la questione assai sensibile dal punto di vista demografico ed economico di una nuova ondata di rifugiati palestinesi senza alcuna garanzia di ritorno in patria.

Nessuno vuole un allargamento del conflitto. Iran compreso

L’Iran è sicuramente il Paese che più di tutti sembra aver guadagnato dalla crisi attuale. In primo luogo, grazie all’operazione portata avanti da Hamas di cui il regime islamico è finanziatore, ha beneficiato retoricamente del colpo subito dall’intelligence israeliana, colta impreparata e incapace di prevenire l’attacco. In secondo luogo, ha ottenuto il congelamento del processo di normalizzazione diplomatica che sembrava procedere positivamente tra Israele e Arabia Saudita e che avrebbe portato gli USA a dare ulteriori garanzie di sicurezza e assistenza per il programma di sviluppo dell’energia nucleare a uso civile per Riyad. 

Tuttavia, nonostante il successo di politica estera raggiunto e al di là dei toni infiammatil’Iran non sembra avere intenzione di lasciarsi coinvolgere in un confronto diretto con Israele. I pericoli per Teheran sono infatti molteplici. Dal punto di vista securitario, rischierebbe di perdere l’importante rete di proxies costruita a livello regionale nel corso degli anni. Dal punto di vista economico, invece, persistono l’elevata inflazione, ancora a ridosso del 40% su base annua, e la volatilità del rial. Inoltre, il Paese rischierebbe di buttare all’aria i progressi ottenuti recentemente: sta producendo ed esportando (per lo più alla Cina) volumi di greggio che non si vedevano dal 2018, anno di uscita degli USA dall’accordo sul nucleare e dell’imposizione di nuove sanzioni dirette e indirette da parte della presidenza Trump. Per il Pil si prevede un’espansione del 3% nel 2023 e del 2,5% nel 2024, e portando a cinque gli anni consecutivi di crescita: per un’economia che ha sofferto dal 1979 a oggi ben tredici anni di recessione non è una performance di poco conto (Grafico 2). Gettarsi in una guerra in una fase di fragile ripresa economica, di crescente apertura diplomatica e di tensione sociale interna, anche sulla scia delle proteste dello scorso anno per la morte di Mahsa Amini, avrebbe dei risvolti preoccupanti per la stabilità del regime.

Grafico 2 – Iran: 13 anni di recessione dal 1979
Variazione % annua del Pil, 1980 – 2022 e stime 2023 e 2024

Fonte: Fondo Monetario Internazionale, World Economic Outlook, ottobre 2023 
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I costi di un’escalation regionale sarebbero dunque problematici per un’economia globale claudicante e per i Paesi più o meno direttamente interessati dai potenziali scenari di guerra. 

In aggiunta, nessuna potenza globale e regionale ha intenzione di veder deflagrare un’altra crisi sistemica davanti ai propri occhi. Gli USA e l’UE devono già fare i conti con la guerra in Ucraina, con le tensioni commerciali con Pechino e con un’inflazione ancora elevata. La Cina ha appena patrocinato l’invito nei BRICS di quattro membri della regione MENA, con cui si sono intensificate le relazioni. Le monarchie del Golfo, Arabia Saudita su tutti, hanno costruito in questi anni proficue partnership commerciali e finanziarie internazionali e lanciato imponenti piani di investimento domestico. E la stessa Russia, che certo beneficia di una distrazione mediatica e potenzialmente di risorse occidentali dal fronte ucraino, ha comunque interessi da difendere in Siria in funzione anti-americana e conta sull’Iran per il proprio approvvigionamento di armi. È l’escalation che nessuno può permettersi.

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