HAITI: LA CRISI SENZA CRISI

Le gang che tengono Port-au-Prince in scacco chiedono al primo ministro di dimettersi. E la violenza delle bande criminali si trasforma in rivolta armata.

Le bande armate che terrorizzano Haiti hanno rivolto un ultimatum al primo ministro Ariel Henry: o si dimette volontariamente o il paese precipiterà nuovamente nella guerra civile. La minaccia è stata formulata da Jimmy Chérizier, detto ‘Barbecue’, il leader della più temuta e influente congrega di gruppi armati attivi nel paese caraibico nel corso di un’intervista alla tv nazionale, alla quale si è presentato in tuta mimetica, circondato da uomini armati e incappucciati. “Se Henry non si dimetterà e se la comunità internazionale continuerà a sostenerlo, andremo dritti verso una guerra civile e un genocidio” ha detto Chérizier, ex poliziotto di 46 anni, sulla lista delle persone sottoposte a sanzioni internazionali da parte delle Nazioni Unite. Da quando Henry ha lasciato Haiti il 25 febbraio le gang hanno messo a ferro e fuoco la capitale Port-au-Prince, facendo irruzione in due carceri e liberando migliaia di detenuti, lanciando attacchi a diverse infrastrutture, tra cui l’accademia di polizia e il principale aeroporto del paese, dove quasi tutti i voli in entrata e in uscita sono stati cancellati. Le violenze e il caos hanno raggiunto un livello tale da impedire al primo ministro – che si trovava in Kenya nel tentativo di accelerare il dispiegamento di una forza di sicurezza multinazionale – di fare ritorno nel paese, costringendolo a riparare nella vicina Puerto Rico. Tra violenza, crisi politica e anni di siccità, 5 milioni e mezzo di haitiani – circa la metà della popolazione – necessitano di assistenza umanitaria.

Un paese sul baratro?

In risposta alle violenze, il governo ha proclamato lo stato d’emergenza e un coprifuoco notturno, ma la sensazione diffusa è che il paese sia a un passo dal baratro. “Chi ha il controllo? Penso che nessuno abbia il controllo”, ha affermato Jean-Marc Biquet, capo della missione locale di Medici Senza Frontiere. “E la mia paura personale è che i poliziotti smettano di combattere e pensino che è una battaglia persa. Allora cos’altro può succedere? Beh, immagino, il caos totale”. Henry, che ha assunto il potere dopo l’assassinio del presidente Jovenel Moïse nel luglio 2021, con il sostegno cruciale di Stati Uniti e Canada, avrebbe dovuto lasciare l’incarico a febbraio, ma ha accettato un accordo di condivisione del potere con l’opposizione fino allo svolgimento di nuove elezioni. Intanto, almeno 15mila persone sono fuggite dalle zone più colpite di Port-au-Prince, e l’alto rappresentante per i diritti umani dell’Onu, Volker Turk, ha avvertito che “il tempo a nostra disposizione per intervenire si sta esaurendo”. Solo quest’anno 1193 persone sono rimaste uccise e oltre 600 ferite nelle violenze tra bande. Inoltre, più di 313mila sono attualmente sfollate mentre il sistema sanitario è sull’orlo del collasso. Gli ospedali spesso non hanno la capacità di curare chi arriva con ferite d’arma da fuoco, mentre scuole e attività commerciali vengono chiuse, poiché le gang impongono restrizioni e taglieggiamenti.

In attesa di soccorsi?

Lo scorso ottobre, definendo la situazione ad Haiti “un incubo ad occhi aperti” il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha chiesto che i donatori intervengano per contribuire all’invio di aiuti, deplorevolmente sottofinanziati. Secondo Unicef oltre l’80% del budget richiesto per la prevenzione e la risposta alla violenza, rimane inevaso. Haiti – la nazione più povera dell’emisfero occidentale – è in subbuglio da decenni e l’assassinio di Moïse ha gettato il paese ancor più nel caos. Dal 2016 non si tengono elezioni locali o amministrative e la presidenza è vacante. Dopo mesi di ritardi, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva finalmente dato il via libera a una missione multinazionale per sostenere la polizia haitiana nella lotta contro le bande, guidata dal Kenya. Ma questo dispiegamento è stato bloccato dai tribunali kenioti e nei giorni scorsi Henry era volato a Nairobi proprio per firmare un accordo bilaterale con il presidente keniano William Ruto finalizzato a sbloccarla. Nairobi si è impegnata a condurre l’operazione con mille agenti di polizia, ma non ha rivelato i dettagli dell’accordo né comunicato una data per il dispiegamento.

Tratto da ISPI

Lascia il primo commento

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*