RAFAH, NETANYAHU E I TAMBURI DI GUERRA

Le forze armate israeliane irrompono nell’ospedale Al Nasser di Khan Younis e mentre si moltiplicano gli appelli contro l’invasione di Rafah, non tutti pensano che l’operazione sia imminente.

Le forze armate israeliane (IDF) hanno preso d’assalto l’ospedale Al Nasser di Khan Younis , il più grande ospedale nella parte meridionale della Striscia di Gaza, provocando il panico tra medici, pazienti e migliaia di civili sfollati. Secondo Al Jazeera i soldati avrebbero preso di mira i reparti di maternità, ortopedia e il pronto soccorso e dopo aver creato dei posti di blocco avrebbero arrestato decine di giovani, tra cui medici e infermieri. L’irruzione, condotta con carri armati e mitragliatrici, ha provocato un numero imprecisato di feriti mentre la struttura, l’unica ancora operativa nella zona, sarebbe ora completamente fuori servizio. Non è la prima volta dall’inizio del conflitto che le truppe israeliane assaltano un ospedale. Al contrario, dall’inizio dell’invasione di terra della Striscia, le IDF hanno preso di mira in maniera sistematica tutte le principali strutture ospedaliere dell’enclave, accusando Hamas di utilizzarle come basi operative. Le Nazioni Unite hanno ripetutamente avvertito che l’offensiva israeliana ha portato il sistema sanitario della Striscia al collasso, determinando una grave carenza di forniture e attrezzature mediche di base. I medici hanno riferito di essere stati costretti a effettuare amputazioni senza anestesia . Al momento, secondo l’Oms, solo 11 ospedali medio piccoli sarebbero rimasti parzialmente funzionanti a Gaza. Circa 22 sono chiusi o non operativi, mentre risultano funzionanti tre ospedali da campo nel sud dell’enclave. Intanto a Rafah è iniziato l’esodo di centinaia di migliaia di persone in fuga nel timore di un imminente attacco delle forze armate israeliane. La città meridionale della Striscia, al confine con l’Egitto, che ospita circa un milione e 400mila sfollati, è il prossimo obiettivo dichiarato del premier Benjamin Netanyahu, che afferma di voler condurre la guerra contro Hamas “fino alla vittoria”.

Di fronte alla prospettiva di un’operazione di terra a Rafah, diventa sempre più cruciale la mediazione di Stati Uniti, Egitto e Qatar per il raggiungimento di un cessate il fuoco in cambio del rilascio di tutti gli ostaggi. La Casa Bianca e diversi paesi arabi, riferisce il Washington Post, starebbero preparando una proposta che include una tempistica precisa per la creazione di uno stato palestinese , che potrebbe essere annunciato nel corso “delle prossime settimane”. L’informazione è confermata dal New York Times secondo cui nel ‘day after’ successivo alla guerra, i paesi della regione stanno valutando di affidare il potere a Gaza a un leader palestinese indipendente, coadiuvato da una forza araba di mantenimento della pace. Il negoziato, tuttavia, è sembrato arenarsi quando oggi dal Cairo è arrivata la notizia che la delegazione israeliana si sarebbe ritirata dalle discussioni e che avrebbe lasciato il paese. Dall’ufficio di Netanyahu – che nei giorni scorsi aveva accusato Hamas di ostacolare i negoziati con richieste “deliranti” – non sono arrivate conferme né smentite. Ma se la decisione di ritirare la delegazione dall’Egitto fosse confermata, fanno sapere i familiari degli ostaggi ancora nelle mani del gruppo armato palestinese, questo equivarrebbe per loro ad “una condanna a morte”.

Con il passare delle ore aumentano anche le pressioni a livello internazionale per convincere il premier Netanyahu a non ordinare l’invasione di Rafah. Un’operazione i cui costi, in termini umanitari “sarebbero intollerabili”, ha dichiarato Emmanuel Macron al termine di una telefonata con il premier israeliano. Sul fronte europeo è da segnalare anche l’iniziativa di Irlanda e Spagna che in una lettera alla presidente della Commissione Europea , Ursula von der Leyen, hanno chiesto che Bruxelles fornisca una valutazione sul rispetto degli obblighi in materia di diritti umani da parte israeliane. In caso di violazioni, Dublino e Madrid chiedono “misure appropriate” che gli Stati membri dovrebbero prendere in considerazione, ma senza specificare quali. E mentre dagli Stati Uniti rimbalzano le voci di tensioni crescenti tra Joe Biden e Benjamin Netanyahu, Israele appare sempre più isolato sul piano internazionale: l’Ambasciata di Tel Aviv presso la Santa Sede ha definito “deplorevoli” le parole del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin  che aveva affermato che la risposta militare di Israele è stata sproporzionata e sta provocando una “carneficina” nella Striscia di Gaza. Una critica senza precedenti nei confronti di un alto rappresentante del Vaticano a cui è seguita nelle ultime ore una parziale marcia indietro quando l’Ambasciata ha affermato che il disguido con la Santa Sede era il risultato di una “traduzione imprecisa”.

Non tutti però sono convinti che un’operazione di terra delle truppe israeliane a Rafah sia imminente. Proclami a parte, sostiene buona parte degli analisti israeliani, ci sono ancora pochissimi segnali che un simile attacco possa avvenire nei prossimi giorni. È improbabile che l’IDF lanci un’importante operazione massiccia come un’invasione di terra in una città piena di sfollati mentre un’intera divisione sta ancora combattendo nelle profondità di Khan Yunis e il totale schieramento delle truppe nella Striscia è il più ridotto degli ultimi tre mesi . Inoltre, a differenza di quanto avvenuto in passato, la popolazione non ha ricevuto avvisi, né sono piovuti volantini o allarmi dal cielo. Ma allora perché il premier parla continuamente di Rafah se l’operazione non è imminente, allarmando la comunità internazionale e dando la possibilità ai capi di Hamas di organizzarsi? Perché se è vero che gli israeliani vogliono la vittoria lo è anche il fatto che sono convinti che non sarà Netanyahu a portargliela . “Individuando  Rafah come obiettivo finale – osserva Anshel Pfeffer –  Netanyahu cerca disperatamente di convincere gli israeliani che solo lui è abbastanza determinato da arrivare fino in fondo mentre i suoi rivali nel gabinetto di guerra, Benny Gantz e Gadi Eisenkot, e lo Stato maggiore dell’IDF, sono tutti troppo esitanti, troppo disfattisti, troppo concentrati su un ‘debole’ accordo sugli ostaggi per portare avanti la guerra fino alla ‘vittoria totale”. Se questo ribalterà finalmente l’ago dei sondaggi in suo favore è ancora tutto da vedere. Ma ogni altro tentativo, negli ultimi quattro mesi è miseramente fallito. “Non c’è alcun segno che gli israeliani lo troveranno più convincente – conclude Pfeffer – ma Netanyahu persisterà con la retorica su Rafah finché non troverà una nuova svolta per la sua narrazione”.

Tratto da ISPI

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