LA “LUNGA MARCIA” DI ISRAELE A GAZA

Le forze armate di Israele proseguono le operazioni di terra nella Striscia di Gaza, concentrandosi su aree circoscritte con la copertura dei raid aerei: si aggrava la situazione umanitaria

Lentamente e meticolosamente. Sono questi i due avverbi utilizzati da Jonathan Conricus, portavoce delle Forze di difesa israeliane (IDF), in un video diffuso sui social dello Stato ebraico per fornire aggiornamenti, in inglese, sulle operazioni militari in corso nella Striscia di Gaza. Le informazioni fornite da Tsahal (acronimo in ebraico con cui spesso di indicano le IDF) sono in effetti tra le poche disponibili, da quando – lo scorso fine settimana – Israele ha avviato le prime significative incursioni nell’enclave costiera palestinese. All’interno della Striscia, infatti, prosegue quello che i media internazionali chiamano ormai abitualmente “blackout informativo”. Dalle poche notizie disponibili, tuttavia, sembra chiaro che fanteria e carri armati israeliani sono entrati nella Striscia da nord e da est, ma al momento stanno concentrando le operazioni in aree circoscritte piuttosto che avanzare rapidamente da nord verso sud come molti osservatori si aspettavanoQuella di Tsahal, dunque, ha tutto l’aspetto di un’operazione lenta e duratura, che presenta però non poche controindicazioni sul piano politico, militare, diplomatico e umanitario.

Nel suo briefing in video, Conricus riferisce che sul campo sono dispiegati carri armati, mezzi corazzati, bulldozer e unità della fanteria e del genio militare. Queste ultime, fa sapere l’IDF, hanno la funzione di neutralizzare le “trappole” tipiche della guerriglia urbana e anche di occuparsi della più volte citata rete di tunnel – lunga almeno 500 chilometri – sotto il livello del suolo. Carri armati israeliani sono stati in effetti geolocalizzati a Beit Hanoun, la “porta nord” della Striscia. Le forze dello Stato ebraico starebbero avanzando anche verso Beit Lahia. Nella giornata di ieri era circolata la notizia di una penetrazione israeliana anche da sud, nella zona di Juhor ad-Dik, nel tentativo di bloccare la Salah ad-Din, principale arteria di collegamento tra il nord e il sud della Striscia. Non si placano, intanto, i raid aerei. Nel pomeriggio di martedì, il ministero della Sanità di Gaza ha denunciato un massiccio attacco aereo, attribuito a Israele, nella cittadina di Jabalia, sede del più grande campo profughi palestinese dell’intera Striscia. I morti, secondo le autorità locali, si contano nell’ordine delle decine, in quello che un portavoce definisce “il peggior massacro” dall’inizio dell’escalation.

Al netto dei singoli eventi, le informazioni vanno prese con le molle perché, come scrive il New York Times, l’operazione israeliana procede “sotto un velo di segretezza”. Il riserbo tenuto dalle IDF riguarda anche il numero delle vittime israeliane. Le brigate al-Qassam, braccio armato del movimento Hamas, hanno ribadito nei giorni scorsi che i loro miliziani si sono confrontati più volte con le forze dello Stato ebraico, provocando ingenti perdite tra le fila nemiche. Israele non conferma in alcun modo queste ricostruzioni, probabilmente per minimizzarne l’impatto politico ed emotivo sull’opinione pubblica interna. Basti pensare che lunedì Hamas ha pubblicato un video in cui tre donne israeliane, rapite il 7 ottobre, attaccano apertamente il premier Benjamin Netanyahu: i media di Israele non hanno diffuso il filmato, per non cedere alla “guerra psicologica” di Hamas, dando invece ampio risalto alla notizia della liberazione – tramite un blitz congiunto di IDF e forze d’intelligence nella Striscia – di una militare israeliana tra le persone rapite. Che si tratti o meno dell’annunciata offensiva di terra a Gaza, in risposta all’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso, l’operazione in corso è comunque contraria alla dottrina militare israeliana, che da una parte si basa su esperienze di conflitto fra paesi e non di guerra urbana, e dall’altra prevede risposte rapide e decise per chiudere il conflitto in tempi brevi. Lo Stato ebraico, in fondo, è un piccolo paese con meno di 10 milioni di abitanti (tra cui 2 milioni di arabi) e un eventuale tributo elevato di vite umane avrebbe un peso specifico non trascurabile.

Del costo politico e diplomatico dell’offensiva sembra essere conscio anche il governo Netanyahu, che tuttavia fatica a trovare una via d’uscita alternativa. La necessità di “fare qualcosa” ha spinto l’esecutivo ad agire, anche se con un “ritardo” di 20 giorni per le pressioni esterne, ma non è ancora chiaro quale sia lo scopo finale oltre al dichiarato – quanto opaco – obiettivo di “sradicare Hamas”. A contribuire alle pressioni su Israele, soprattutto da parte degli USA, contribuisce anche il costo del conflitto in termini umanitari, che rischia di crescere di ora in ora insieme al pericolo di allargamento dell’escalation a livello regionale. Il direttore generale dell’UNICEF, Catherine Russell, ha informato il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che a Gaza, secondo i dati forniti dal ministero della Sanità locale, ogni giorno in media vengono uccisi o feriti 420 bambini. Complice anche la particolare situazione demografica, che vede metà della popolazione dei Territori palestinesi al di sotto dei 20 anni di età, i minori sono tra le principali vittime del conflitto per il diretto coinvolgimento in bombardamenti, ma anche per le conseguenze in termini di malattie, mancanza di igiene e spostamento forzato. In questo contesto, sta circolando molto in queste ore un documento redatto dal ministero dell’Intelligence israeliano, filtrato sui media locali, in cui si ipotizza lo spostamento della popolazione civile di Gaza nella penisola egiziana del Sinai come soluzione per la Striscia dopo la caduta di Hamas, realizzando quella che molti osservatori già chiamano “seconda Nakba”, parola araba con cui viene indicato l’esodo palestinese dopo il 1948. Vale la pena sottolineare, però, che l’intelligence ha proprio il compito di elaborare anche analisi di scenario anche tra le più nefaste e – come sembrerebbe in questo caso – impraticabili. Sta di fatto che la fuoriuscita di indiscrezioni del genere suscita non poco dibattito, in una situazione umanitaria di per sé già molto precaria.

Tratto da ISPI

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