LA POLITICA GENOCIDIARIA DI HAMAS E LE ILLUSIONI MESSIANICHE DELLA DESTRA ISRAELIANA

Quanto è accaduto in Israele rientra senz’altro nella categoria di genocidio, termine coniato da Raphael Lemkin nel 1948 per indicare in una azione politica la finalità della distruzione degli esseri umani.

Una cosa è la guerra, anche la più efferata, altro è invece concepire una azione con il fine di uccidere il maggiore numero di persone, donne, giovani, bambini con la colpa soltanto di essere al mondo e di essere nati in Israele.

Quanto è avvenuto è del resto coerente con lo statuto di Hamas che preconizza la distruzione di Israele e della cosiddetta “entità sionista”. Ed è totalmente in linea con la politica iraniana che, oltre a considerare le donne esseri inferiori, ha come missione politica da proporre al mondo intero l’annientamento dello Stato ebraico. Nei documenti di Hamas gli ebrei sono definiti come discendenti delle scimmie e dei maiali e ai ragazzi negli asili e nelle scuole si insegna come valore uccidere gli ebrei e gli israeliani.

Non è dunque casuale che i carnefici abbiano ucciso centinaia di ragazzi che partecipavano ad una festa rave in un kibbutz, o che abbiano suonato al citofono nei condomini per annunciare l’arrivo della morte, o che ancora abbiano organizzato delle vere e proprie retate di donne e di bambini da portare come trofeo di guerra a Gaza. Hanno agito in questo modo con una totale convinzione. Per loro uccidere, linciare, sparare nel mucchio è totalmente naturale e legittimo. Non è una guerra contro un nemico, ma una azione che prevede la morte del maggiore numero di civili.

E ciò che colpisce ulteriormente è la gioia e la felicità che da Gaza, all’Iran, al Libano, al Qatar si è manifestata nelle piazze per questo sterminio di centinaia di esseri umani.

Uccidere gli israeliani è un vanto da esibire in pubblico. È come dire che gli ebrei che vivono in Israele non meritano la definizione di esseri umani.

Il fine di queste azioni non ha nulla a che vedere con la pace, un compromesso territoriale e nemmeno con il futuro politico di Gaza e dei palestinesi. È soltanto il gusto e il piacere di annientare. La vittoria politica o militare che sia, non è concepita con un obbiettivo, un risultato realistico da raggiungere, ma solamente con la distruzione fisica degli esseri umani.

Quanto è accaduto deve portarci a ragionare sul perché tutto è stato possibile e su tutte le aporie che non hanno impedito un simile massacro. Ci riporta, con tutte le differenze, alla violenza gratuita di cui parla Primo Levi e il cui scopo è il solo piacere di vedere l’altro soccombere.

Come insegna Raphael Lemkin un genocidio, un tentativo di genocidio, uno sterminio sia pure parziale, un crimine di massa, va in primo luogo prevenuto.

È su questo punto si deve aprire una discussione seria, come del resto si può leggere nelle riflessioni che sono cominciate sulla stampa israeliana che parla di un grande fallimento politico, militare e di intelligence.

Prima di tutto c’è da ragionare molto seriamente sul ruolo di Hamas e sulla necessità non solo di isolarla moralmente – raccontando esattamente la sua natura e non nascondendo la sua ideologia di morte -, ma anche di capire come bloccarla e neutralizzarla, come si è cercato di fare con l’Isis. Sappiamo che in queste ore in Israele si decidono molte cose, scelte militari molto complicate che richiedono delle strategie politiche adeguate e che non devono essere basate solamente sulla punizione, né tanto meno sulla vendetta.

In secondo luogo c’è da ragionare sul percorso di pace interrotto che in questi ultimi anni ha dato spazio ai fanatici e ha impedito che i palestinesi potessero ritrovarsi in un progetto di futuro e di convivenza.

Come ha scritto Yehuda Bauer, nel suo ultimo libro “Ebrei. Un popolo in disaccordo” (pubblicato in Italia da Gariwo con Cafoscarina, 2023), in Israele si è affermata una illusione di tipo messianico sulla situazione dei territori occupati. La destra, in particolare, ha fatto credere che con il tempo lo status quo sarebbe stato accettato dagli arabi israeliani e dai palestinesi nella Cisgiordania per una sorta di volontà divina che avrebbe permesso un processo di colonizzazione dei territori. Si può essere messianici anche se non si è religiosi, immaginando che i propri desideri si possano attuare con la buona sorte.

Così prima si è votata una legge che definiva la supremazia ebraica nello Stato d’Israele, non riconoscendo il ruolo delle altre minoranze, arabe, druse, curde e cristiane. Poi, come è scritto nell’ultimo editoriale di Haaretz, “si sono adottate delle misure astute per annettere la Cisgiordania e per effettuare forme di pulizia etnica nell’area C definita da Oslo e nelle colline di Hebron e nella valle del Giordano”.

Così Netanyahu è stato in questi anni l’artefice del più grave errore storico.

Invece di rafforzare l’autorità palestinese di Abbas e di isolare Hamas con una proposta di compromesso territoriale realistico, ha permesso che si rafforzasse la direzione fanatica e genocidaria di Gaza con i risultati sconcertanti che vediamo in queste ore.

Non solo Hamas è stata così sottovalutata e si è lasciata sguarnita la sicurezza, ma si è fatto credere che i palestinesi avrebbero rinunciato ai loro diritti e alla loro identità.

I pogrom purtroppo possono accadere non solo per le responsabilità dei carnefici, ma anche quando non si prendono per tempo delle contro misure.

Il tema della arte della prevenzione del male estremo, come immaginato da Raphael Lemkin, vale anche per Israele.

In questo caso l’hybris tecnologica, l’idea della propria modernità, condita con una visione messianica, ha fatto sottovalutare i rapporti di forza.

Già l’irrealismo politico nella storia ebraica, come ricorda Yehuda Bauer, ha portato alla tragedia di Massada, al tempo dell’invasione dei romani.

Niente è uguale nella storia, ma un piccolo popolo non deve mai sopravvalutare la sua forza. Ecco perché il compromesso territoriale con i palestinesi non solo è vitale per il futuro dello Stato ebraico, ma è la base della sicurezza futura.

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

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