SULLA LIBERTÀ DI STAMPA NON CI SONO VIE DI MEZZO

In occasione della Giornata mondiale della libertà di stampa 2024, GariwoMag propone riflessioni e interviste sul legame tra informazione e diritti umani e tra potere, guerre e giornalismo nel contesto internazionale di oggi.

Nella carneficina di Gaza il cartello “press” non garantisce l’immunità. Anzi. Da quando è iniziata la guerra tra Israele e Hamas i giornalisti hanno pagato con il prezzo più alto, la vita, la difesa del nostro diritto a conoscere la verità.
Oggi, 3 maggio, Giornata mondiale della libertà di stampa, battersi per questo diritto – in quanto comunità, organizzazioni o singoli cittadini – non può prescindere dal ricordare gli operatori della informazione uccisi nella Striscia dal 7 ottobre 2023. E anche noi, redattori della rivista di una organizzazione internazionale che si impegna a promuovere nel mondo la responsabilità personale attraverso la diffusione degli esempi virtuosi di persone comuni, riteniamo eticamente inaccettabile dimenticarci dei 97 colleghi giornalisti (92 palestinesi, due israeliani e uno libanese) che hanno perso la vita in questo lasso di tempo nell’area sopracitata (i dati, della Commissione per la protezione dei giornalisti – CPJ, sono aggiornati al 1° maggio).

Negli ultimi anni, in occasione del 3 maggio abbiamo destinato la nostra attenzione – attraverso iniziative pubbliche al Giardino dei Giusti di Milano seguite da centinaia di persone – alla condizione dei giornalisti nella Russia di Putin. Come vedrete proseguendo nella lettura di questo articolo continueremo a farlo, così come denunceremo quanto succede in Iran, in Cina e in altri paesi dove la democrazia è in pericolo.

Ma ci sembra giusto iniziare dal Medio Oriente e il motivo è presto detto. Secondo CPJ dal 1992, quando hanno iniziato a documentare il numero dei giornalisti morti nel mondo, in nessun conflitto ci sono stati così tanti omicidi di giornalisti quanti quelli delle prime dieci settimane di guerra a Gaza. Un numero esiguo rispetto ai 34 mila morti di Gaza e i 1200 in Israele, che tuttavia emerge come un allarme evidente per il futuro della regione. “Ogni volta che un giornalista muore o rimane ferito, perdiamo un frammento di verità“, ha affermato il direttore di CPJ Carlos Martínez de la Serna. “I giornalisti sono civili che durante i conflitti sono protetti dal diritto internazionale umanitario. I responsabili della loro morte devono affrontare un duplice processo: uno ai sensi del diritto internazionale e l’altro davanti allo sguardo spietato della storia”. I rischi per la libertà di stampa in Medio Oriente non hanno solo a che vedere con la sorte dei giornalisti che raccontano la vita sotto le bombe. Il quotidiano Haaretz negli ultimi tempi ha fatto emergere con estrema preoccupazione il rischio di una deriva illiberale in Israele. “Come distruggere la stampa libera israeliana passo dopo passo”, s’intitola una inchiesta di Jasmin Gueta pubblicata dal giornale di Tel Aviv. Si punta il dito contro il Ministro delle comunicazioni Shlomo Kahri che sfrutterebbe “la guerra a Gaza per avanzare una serie di passi progettati per indebolire i media del paese”.
Sotto l’ombrello dello stato di emergenza verrebbe implementata una serie di disposizioni o minacce che di fatto limiterebbero la libertà d’espressione: la giornalista prende ad esempio la cosiddetta “Legge Al Jazeera” e, più banalmente, la demolizione delle idee contrarie a quelle del governo Netanyahu attraverso un apparato propagandistico che viene definito una “macchina del veleno”. 

La libertà di stampa è alla base di una società democratica, o dovrebbe esserlo, perché garantisce ai suoi membri la possibilità di esercitare il proprio diritto di scelta sulla base di informazioni non manipolate e non al servizio di un interesse. Non è un caso che, laddove ci sono guerre, governi autoritari o dittatoriali, uno degli elementi che per primo viene a mancare è la libera circolazione delle informazioni.
Non solo, gli stessi genocidi che si sono verificati nella storia hanno avuto come arma di diffusione la comunicazione attraverso i media. Pensiamo a Radio Machete in Ruanda: un canale d’informazione utilizzato per dare indicazioni su come compiere i massacri.

La crucialità dell’informazione per le persone e per i meccanismi di potere è dimostrata, purtroppo, anche dall’impressionante numero che ci dice quanti giornalisti e lavoratori dei media si trovano oggi in carcere nel mondo: 570 secondo RSF.

Fare informazione libera è sempre più pericoloso e ci sono contesti in cui questo è particolarmente evidente. Negli anni, ne abbiamo parlato lungamente su queste pagine ma oggi è fondamentale ricordarli.

Ad esempio, in Iran i giornalisti sono stati arrestati in massa durante le proteste innescate dalla morte di Mahsa Jina Amini; oggi, ad eccezione delle informazioni diffuse da attivisti e giornalisti che rischiano la vita per farlo, è difficile avere informazioni sulla repressione del regime di Teheran.
Tutti ricordiamo il caso delle giornaliste Elaheh Mohammadi e Niloofar Hamedi, che sono state incarcerate per aver raccontato al mondo l’assassinio di Amini. Come è successo a loro, altre 35 persone che lavorano nell’informazione sono detenute nelle carceri del paese.

Per questa Giornata mondiale della libertà di stampa, alcuni degli autori di GariwoMag ci accompagnano attraverso quattro riflessioni per capire quale sia oggi il legame tra potere, guerre e giornalismo.

1) La sinologa del collettivo China Files, Alessandra Colarizi, ci porta in Cina, “la prigione di giornalisti più grande del mondo”, dove “il regime conduce una campagna di repressione contro il giornalismo e il diritto all’informazione a livello globale”, come dichiarava già nel 2022 RSF. Con Colarizi abbiamo analizzato la condizione dei giornalisti stranieri nel paese, che dichiarano di subire regolarmente intimidazioni, sorveglianza, molestie. 

2) Come raccontiamo senza sosta dal 2022, nella Federazione Russa ormai non si contano le testate chiuse o dichiarate “agenti stranieri” dopo l’invasione dell’Ucraina. La censura ha pervaso ogni ambito della comunicazione e le voci del dissenso trovano spazio solo dietro le sbarre: sono decine i giornalisti attualmente in carcere o scomparsi (46 secondo RSF). Katerina Abramova, portavoce di Meduza, ci ha raccontato – attraverso un’intervista rilasciata a Michele Migone – in che modo la testata simbolo del dissenso verso il regime di Mosca continui a fare informazione indipendente nonostante minacce pressoché quotidiane.

3) Il giornalista Michele Novaga ci racconta la gravissima situazione del giornalismo in Guatamela, dove solo nel 2022 gli attacchi contro i media e i giornalisti sono stati 105. El periodico, storico quotidiano del paese, è stato chiuso nell’autunno del 2022. Novaga ha intervistato il figlio di José Rubén Zamora, 67 anni, fondatore e direttore del giornale che ad oggi è detenuto e condannato a diversi anni di carcere senza aver commesso alcun crimine.

4) Infine, tornando in Europa, abbiamo deciso, insieme alla giornalista Tatjana Dordevic, di far emergere il caso della Serbia, un paese candidato a entrare nell’Unione Europea in cui ancora oggi si può morire per essere giornalisti.

Analizzare i paesi in cui la libertà di stampa viene regolarmente violata, non deve farci dimenticare che essa non è scontata nemmeno in quei contesti democratici che troppo spesso consideriamo granitici. L’informazione libera non è al sicuro in nessun luogo.

Ad esempio non lo è negli Stati Uniti, dove CPJ è stata costretta a lanciare un monito affinché ai giornalisti – compresi i giovani reporter che frequentano le università – venga consentito di coprire le attuali proteste nei campus senza temere per la loro sicurezza. O da noi in Italia, dove la libertà di stampa continua a essere minacciata dalla criminalità organizzata e da gruppi politici estremisti. Inoltre, gli ultimi casi di presunte censure da parte dei dirigenti della tv di stato confermano che l’ingerenza della politica nell’informazione è ancora un problema centrale nella vita democratica del nostro paese.

Chiudiamo con una frase di un Giusto che venne ucciso per aver raccontato la verità sulla dittatura militare in Argentina, Rodolfo Walsh.

“Il giornalismo è libero o è una farsa. Non ci sono vie di mezzo”.

Analisi di Helena Savoldelli, Responsabile del coordinamento Redazione e Joshua Evangelista, Responsabile comunicazione Gariwo

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