IRAN VS ISRAELE: LA VARIABILE BIBI

Dopo l’attacco iraniano gli alleati esortano Israele alla calma e puntano alla de-escalation, ma tutto dipende una variabile imprevedibile: Benjamin Netanyahu.

L’attacco sferrato dall’Iran contro Israele nella notte di sabato è valso allo stato ebraico il sostegno dei principali leader mondiali, che tuttavia hanno immediatamente esortato Israele a mostrare ‘moderazione’. Una reazione anomala che, d’altronde, riflette l’eccezionalità di un’operazione su cui ancora osservatori e analisti sembrano divisi. Quella che Teheran ha lanciato – a suo dire in rappresaglia all’attacco contro l’ambasciata iraniana in Siria il 1° aprile – è stata un’azione spettacolare ma calibrata, per non innescare la riposta israeliana? Tel Aviv reagirà comunque, dopo aver dato prova di forza, intercettando e abbattendo la quasi totalità degli ordigni? La crisi può considerarsi conclusa o è l’ennesimo indicatore di un’escalation inevitabile? In una riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza, il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha chiesto a tutte le parti di “fare un passo indietro dal baratro”, avvertendo che “né la regione né il mondo possono permettersi un’altra guerra”. Un appello simile è arrivato dai leader del G7 che hanno condannato l’attacco iraniano ma chiarito al contempo che bisogna “evitare l’escalation”. E se da Tel Aviv il premier Benjamin Netanyahu e il suo gabinetto di guerra fanno sapere che la risposta all’attacco iraniano “arriverà nei modi e nei tempi scelti da Israele”, Washington ribadisce che il sostegno allo Stato Ebraico è incondizionato, ma che non si unirà ad una ritorsione contro Teheran. Il messaggio è chiaro: gli Stati Uniti non intendono farsi trascinare in un’altra guerra che non avrebbero voluto. Resta da capire se Israele e il primo ministro Netanyahu lo riceveranno: se innescassero uno scontro tra le due principali potenze militari della regione, per gli stati Uniti restarne fuori non sarebbe così semplice.

Israele non è poi così isolato?

Se Tel Aviv può presentare la risposta all’attacco iraniano come una vittoria – la prima per Israele dall’inizio della guerra in corso – è chiaro che se l’attacco non fosse stato condotto con tecnologie che i satelliti israeliani e alleati hanno visto con ampio anticipo, le cose sarebbero andate diversamente. Secondo un portavoce militare l’attacco ha provocato solo danni minori all’infrastruttura della base aerea di Nevatim, nel sud, e il ferimento di una bambina colpita dai detriti di un ordigno. Teheran, inoltre, aveva largamente annunciato una reazione, dando modo a Tel Aviv di rafforzare le sue unità di difesa aerea, richiamare i riservisti, e dichiarare un alto livello di allerta. Inoltre, se i sistemi Arrow, Iron Dome e Fionda di Davide hanno intercettato la maggior parte dei droni e dei missili iraniani ma “la difesa ha funzionato anche grazie a partner strategici”, ha ammesso l’esercito. Tra questi Stati Uniti, Regno Unito e Francia, ma non solo. Secondo l’agenzia di stampa Reuters, la notte dell’attacco la contraerea di Amman avrebbe abbattuto “dozzine di droni iraniani” che volavano in direzione di Israele. E anche gli stati del Golfo, dagli Emirati all’Arabia Saudita avrebbero svolto un ruolo indiretto, dal momento che ospitano sistemi di difesa aerea occidentali, aerei di sorveglianza e di rifornimento. Le autorità della Giordania – un paese in cui un residente su cinque è di origine palestinese – si sono sentite in dovere di replicare: “Velivoli non autorizzati sono stati intercettati perché rappresentavano una minaccia per la nostra gente e le aree popolate”.

Netanyahu a un bivio?

Se l’Iran ha reagito per ‘non perdere la faccia’, ma lo ha fatto in modo “proporzionato” come ha fatto notare l’ambasciatore di Teheran all’Onu, spetta ora al governo israeliano decidere tra l’escalation o “prendersi la vittoria” come gli ha suggerito il presidente americano Joe Biden. Di fronte alle due alternative, Netanyahu prende tempo. Da un lato è pressato a dai suoi alleati della destra fondamentalista religiosa che chiedono una risposta “devastante” contro Teheran. Dall’altro non vuole frenare i toni soddisfatti con cui i giornali israeliani stanno elogiando l’impressionante dimostrazione delle capacità difensive dell’esercito e – sottolineando il contrasto con il crollo della ifesa del 7 ottobre – suggeriscono che “si è voltata pagina”. Senza considerare che un account ufficiale del governo iraniano twittava che per Teheran “la questione può considerarsi conclusa” ancor prima che il primo drone raggiungesse lo spazio aereo israeliano. Una risposta israeliana, ora come ora, trasformerebbe un’apparente vittoria in una nuova scommessa dall’esito imprevedibile attivando potenzialmente una guerra su vasta scala. Oltre a tutte le conseguenze del caso, un simile passo farebbe infuriare il governo americano rivelatosi, ancora una volta, determinante per garantire la sicurezza israeliana.

Una variabile imprevedibile?

Pur considerate le conseguenze, però, non è detto che il governo israeliano non stia comunque prendendo in considerazione l’ipotesi. “Se i colloqui [del governo] fossero trasmessi in diretta su YouTube – ha detto una fonte al giornalista Ronen Bergman – ci sarebbero 4 milioni di persone che gridano all’aeroporto Ben Gurion cercando di uscire da qui”. Per questo, ancora una volta, i riflettori sono puntati sul premier israeliano: dopo sei mesi di guerra e quasi 34mila morti palestinesi, nessuno dei suoi obiettivi a Gaza è stato raggiunto. Più di 100 ostaggi, molti dei quali già morti, rimangono nella Striscia; gran parte della leadership di Hamas, compresa l’eminenza grigia dell’attacco Yahya Sinwar, è ancora viva e l’esercito israeliano sta ancora respingendo controffensive sferrate da aree dichiarate sotto il loro controllo da mesi. Eppure, il leader più longevo dello Stato di Israele, politicamente sopravvissuto persino al rifiuto di assumersi la responsabilità del fallimento nella risposta durante l’attacco di Hamas del 7 ottobre, rimane stabilmente alla guida dell’esecutivo. Al contrario, mentre crescono gli appelli alle elezioni anticipate, i sondaggi suggeriscono che nelle ultime settimane la sua popolarità personale e il sostegno nei confronti del suo partito, il Likud, hanno iniziato a rimontare. Per anni Netanyahu ha usato la retorica anti-iraniana a suo vantaggio, senza mai passare dalle parole ai fatti. Oggi, la regione e il mondo devono sperare che non colga questa incognita come l’ennesima opportunità politica.

Tratto da ISPI

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