A GAZA NON È CAMBIATO NIENTE

La richiesta di un cessate il fuoco faticosamente raggiunta all’Onu non ha portato a una tregua, né a un sollievo delle sofferenze dei civili palestinesi su cui incombe una catastrofe umanitaria.

A distanza di tre giorni dall’approvazione della risoluzione Onu per un cessate il fuoco immediato tra Israele e Hamas, nella Striscia di Gaza si continua a morire. Nelle ultime ore le forze israeliane hanno circondato due ospedali a Khan Younis, dove il ministero della Sanità ha detto che 12 persone, tra cui alcuni bambini, sono rimaste uccise mentre proseguono gli scontri a fuoco in diverse zone dell’enclave. Il bilancio delle vittime– ha reso noto il ministero della Sanità palestinese – ha superato i 32.500 morti accertati e gli oltre 74mila feriti. Ma a farsi più preoccupante ora dopo ora è l’imminente catastrofe umanitaria, determinata dalla mancanza di aiuti che sta rapidamente conducendo la Striscia verso una carestia. A cinque mesi dall’inizio del conflitto, il deficit tra il volume dei rifornimenti che sarebbero entrati nella Striscia se non fosse stato per la guerra e ciò che è stato effettivamente ricevuto ha superato il mezzo milione di tonnellate. Secondo l’Integrated Food Security Phase Classification (IPC) delle Nazioni Unite nessuno degli abitanti dell’enclave è ormai più al sicuro dal punto di vista alimentare. Da quando è stato istituito, 20 anni fa, l’IPC ha dichiarato solo due carestie: in Somalia nel 2011 e in Sud Sudan nel 2017. A meno che non sia ripristinata la fornitura di aiuti, hanno fatto sapere, gli esperti dovranno dichiararne una terza.

Aiuti aerei, foglia di fico?

Le Nazioni Unite insistono sul fatto che Israele abbia delle responsabilità legali nei confronti dei civili palestinesi a cui è impedito uscire dalla Striscia. L’alto funzionario per i diritti umani, Volker Türk, ha ripetutamente denunciato alla BBC che l’ipotesi secondo cui Israele sta usando la fame come arma di guerra a Gaza è “plausibile”. Se l’intento fosse dimostrato, ha spiegato, equivarrebbe a un crimine di guerra. Accuse che il governo di Benjamin Netanyahu definisce come “una totale assurdità”, mentre lunghe file di camion vedono i loro carichi di aiuti ammassarsi sul lato egiziano del confine con Rafah. Mentre la situazione peggiora con il passare dei giorni, numerose voci critiche hanno cominciato a puntare il dito anche sulla comunità internazionale. Invece di esercitare pressione su Israele perché riapra i valichi di frontiera, Stati Uniti, Regno Unito e alcuni paesi europei infatti hanno preferito attivare una sorta di ponte aereo che prevede il lancio di aiuti sopra la Striscia. La decisione è stata presa nonostante le allerte delle agenzie e organizzazioni umanitarie, secondo cui questo metodo è il meno efficace per distribuire rifornimenti umanitari. Da allora diversi palestinesi sono annegati mentre cercavano di raggiungere a nuoto alcune casse che erano cadute in mare, o sono rimasti schiacciati quando i paracadute non si sono aperti correttamente.

Basta armi a Israele?

A livello internazionale, intanto, si intensificano le pressioni perché Israele sia fatto oggetto di un embargo sulle armi. La relatrice speciale per le Nazioni Unite sui territori palestinesi, Francesca Albanese, ha dichiarato al Consiglio dei diritti umani di ritenere che la campagna militare di Israele equivalga a un genocidio e ha invitato i paesi a imporre immediatamente sanzioni e un embargo sulle armi. “Trovo che ci siano ragionevoli motivi per credere che sia stata raggiunta la soglia che indica che sono stati commessi atti di genocidio contro i palestinesi a Gaza”, ha dichiarato Albanese a Ginevra mentre appelli per uno stop alla vendita di armi verso lo Stato ebraico si moltiplicano in diversi paesi. Una lettera firmata da più di 130 parlamentari britannici e indirizzata al ministro degli Esteri, David Cameron, evidenzia le azioni intraprese da altri paesi, tra cui il Canada che la scorsa settimana ha annunciato che avrebbe fermato tutte le esportazioni di armi verso Israele. Come ha osservato sulle colonne del Guardian Maria Lawlor, relatrice speciale Onu, è “l’intera architettura internazionale dei diritti umani che sta scricchiolando sotto il peso dell’ipocrisia dei paesi che professano di sostenere un ordine basato su regole e tuttavia continuano a fornire a Israele armi che uccidono palestinesi innocenti”.

Usa: cresce il malcontento?

Intanto, con una brusca inversione di rotta rispetto al voltafaccia della scorsa settimana, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha deciso di inviare una delegazione a Washington per discutere della possibile operazione militare a Rafah. Lo ha confermato la portavoce della Casa Bianca, Karine Jean-Pierre, secondo cui si sta cercando di individuare “una data favorevole” per l’incontro. Crisi rientrata dunque tra Joe Biden e Benjamin Netanyahu? Non proprio. Anche perché, come dimostra un sondaggio pubblicato ieri da Gallup, la quantità di americani che si oppone alla campagna militare israeliana supera la maggioranza con un ampio margine. Secondo la rilevazione, il 55% degli americani disapprova le azioni di Israele: un aumento di 10 punti percentuali rispetto a novembre. E la questione sta ormai lacerando anche i democratici statunitensi: ieri a Washington ha fatto scalpore la decisione di Annelle Sheline, una funzionaria del dipartimento di Stato che si occupa di diritti umani in Medio Oriente, di dimettersi dall’incarico per protestare contro il sostegno americano a Israele. “  “La mia domanda era: perché questo sostegno a Israele è considerato più importante di tutte queste altre priorità, probabilmente molto significative?” ha detto. “Non credo ancora di avere una risposta valida”.

Tratto da ISPI

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