IL SENEGAL IN BILICO

La controversa decisione di rinviare le elezioni accende le proteste e proietta nell’incertezza una delle democrazie più stabili del continente.

Sale la tensione in Senegal, dove manifestanti a Dakar hanno eretto barricate e si sono scontrati con le forze dell’ordine dopo che il parlamento ha approvato il rinvio delle elezioni presidenziali dal 25 febbraio al 15 dicembre. Il voto, contestato da molti parlamentari, è avvenuto mentre alcuni esponenti dell’opposizione venivano portati fuori dall’emiciclo con la forza, dopo aver contestato la decisione del presidente Macky Sall che proietta il paese in una crisi istituzionale senza precedenti. Il presidente, il cui secondo mandato è in scadenza, avrebbe dovuto lasciare l’incarico il 2 aprile. In base al nuovo disegno di legge invece, resterà in carica fino alla fine dell’anno e sono in molti a sospettare che voglia utilizzare questi sei mesi per abolire il limite di due mandati previsto dalla Costituzione. Le autorità hanno temporaneamente limitato l’accesso a Internet, giustificando la misura con il “mantenimento dell’ordine pubblico”, mentre diverse scuole della capitale hanno rimandato a casa gli alunni. Sall, da parte sua, dichiara che non intende candidarsi nuovamente e afferma di aver chiesto un rinvio delle consultazioni a causa di una disputa sulla lista dei candidati e di un presunto scandalo di corruzione all’interno della commissione elettorale. Argomenti, i suoi, che non convincono tutti: la piattaforma F24, un collettivo di organizzazioni di opposizione e il candidato Khalifa Sall hanno accusato il presidente di un “colpo di stato istituzionale”.

La crisi in corso è tanto più preoccupante in quanto il Senegal, considerato una delle democrazie più stabili del continente, è l’unico paese dell’Africa occidentale a non aver subito colpi di stato militare nella storia recente. Al contrario, nel 2017, le truppe senegalesi avevano guidato una missione regionale nel vicino Gambia per cacciare il dittatore Yahya Jammeh dopo che si era rifiutato di riconoscere la sconfitta elettorale. E in una regione, quella del Sahel, epicentro di un’epidemia di putsch militari, il presidente Sall ha svolto un ruolo chiave nell’ambito della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) per costringere le giunte militari a concedere elezioni e restituire il potere ai governi civili. Gli avvenimenti degli ultimi giorni scoprono però una realtà ben diversa e pregiudicano le credenziali democratiche del paese, alle prese con una sfida che potrebbe cambiarne il corso politico, sociale e storico. La crisi arriva al culmine di due anni di tensioni, in seguito a quello che l’opposizione denuncia come un tentativo deliberato di escluderla dalle elezioni, attraverso accuse ai candidati per crimini che non avrebbero commesso. Tra questi spicca il leader dell’opposizione Ousmane Sonko, bandito per diffamazione, e Karim Wade, figlio dell’ex presidente Abdoulaye Wade, accusato di corruzione ed escluso dalla corsa per la presidenza poiché in possesso di una doppia nazionalità francese. Entrambi affermano che le cause contro di loro sono politicamente motivate

La crisi politica minaccia la stabilità di un paese considerato fino a poco tempo fa un modello anche dal punto di vista economico: la crescita del Senegal negli ultimi anni è stata alimentata da una nascente industria del petrolio e del gas, che hanno contribuito a finanziare investimenti in infrastrutture come strade e ferrovie. Secondo il Fondo monetario Internazionale, Dakar è alla guida di una delle economie africane a maggiore tasso di crescita, in cui gli investimenti esteri sono aumentati del 21% raggiungendo i 2,2 miliardi di dollari nel 2021. Eppure, in un paese in cui oltre metà della popolazione ha meno di 18 anni, sono proprio i giovani a lamentare di essere stati lasciati indietro. La disoccupazione giovanile è vicina al 20% e l’impatto dei cambiamenti climatici sulla pesca e l’agricoltura, settori tradizionali di impiego per le fasce più povere della popolazione, ha esacerbato il problema. La disillusione, unitamente al restringimento degli spazi democratici per i partiti che hanno fatto da portavoce a questo malcontento hanno convinto molti giovani a migrare verso l’Europa in cerca di una vita migliore.

Di fronte a quella che appare, agli occhi di molti, come la capitolazione di una delle ultime seppur imperfette democrazie della regione, la reazione europea e francese è improntata alla prudenza. Di fronte agli interrogativi che già si leggono su diversi quotidiani locali e che accusano più o meno velatamente Parigi di aver giocato un ruolo in quanto sta accadendo, la Francia mantiene un profilo basso. L’ex potenza coloniale, presente tuttora nel paese con una base militare a Dakar, teme di diventare il capro espiatorio della rabbia popolare contro Sall, considerato da sempre vicino al presidente francese Emmanuel Macron. Già in occasione dei disordini del 2021, gli obiettivi delle proteste erano stati francesi, come antifrancese era il sentimento che animava le manifestazioni contro il governo e le istituzioni senegalesi che fin dall’indipendenza sono sempre stati attenti agli interessi commerciali francesi. L’espulsione e poi l’arresto di Sonko, un uomo di estrema sinistra che ha promesso di cambiare il sistema e renderlo più giusto per i lavoratori senegalesi, seguito dalla decisione di rinviare le elezioni, rischia di trasformarsi nella scintilla che dà fuoco alla miccia. “Che il faro della democrazia nella regione dia un segnale del genere non può che preoccupare per la sostenibilità del modello senegalese imperfetto ma vivo – osserva Le Monde Afrique – E per la gioia dei militari che, nei paesi vicini, scelgono di restare al potere senza preoccuparsi del voto popolare”.

Tratto da ISPI

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